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Qualche settimana fa – a proposito di adulazione e carriera - menzionammo uno dei personaggi centrali del dramma
Re Lear di Shakespeare: il Buffone di Corte. Il Buffone era - tra i giullari - il più fortunato da quando a partire dalla fine del XIV secolo il potere cominciò ad accoglierli a palazzo per allietare i momenti ricreativi del sovrano. Mentre il giullare era mal tollerato, emarginato e spesso trattato come essere inferiore tra la gente comune (il più delle volte si trattava di nani e gobbi), il Buffone - entrando a far parte dell’entourage della corte - migliorava notevolmente la propria condizione sociale, ed anche vescovi e alti prelati ne avevano uno per compagnia.
Uno dei più famosi era alla corte di Papa Leone X, tale Frate Mariano Fetti, che venne addirittura nominato responsabile dell’
Ufficio del Piombo. L’ufficio era così chiamato in quanto ivi i diplomi pontifici venivano bollati col piombo, appunto, ed era una sinecura molto ambita dai cortigiani del Papa per avere molta rendita con poco impegno.Il Buffone non aveva soltanto il compito di divertire, ma anche quello di fungere da specchio deformante attraverso il quale scoprire quello che di solito non si vedeva. Il suo compito era, quindi, importantissimo: doveva dire la verità, far aprire gli occhi o fornire un punto di vista alternativo in contraddizione alle azioni del suo signore il più delle volte con indovinelli, battute o giochi di parole.
Ridendo dicere verum, come dicevano i latini. Anche Regan, la figlia di Re Lear, quando alla fine si rende conto che il suo mondo sta andando in rovina - sconsolata - ammette che «coloro che dicono le cose per ischerzo si dimostrano sovente dei buoni profeti».
Il rapporto col sovrano si caratterizzava spesso da un rovesciamento parziale di autorità, ma in qualsiasi momento il Buffone poteva essere apostrofato come persona assurda, incoerente e quindi sciocca (fool). Un lavoro certamente non facile. E’ forse per questo motivo che Jean de la Bruyére, scrittore francese del seicento, non riusciva a cogliere appieno l’importanza di questa figura,
definendo i buffoni “gente senza importanza”. Ma quanti leader, nelle moderne organizzazioni, possono contare su collaboratori con queste caratteristiche? Pochi, se escludiamo quelli che di professione fanno gli adulatori del potere. Questi sì che, senza disprezzare il Buffone dei tempi andati, vestono metaforicamente con cappuccio a orecchie d’asino e sonagli, costume bicolore e marotte (bastone giullaresco a forma di testa). I manager di solito si preoccupano per la propria carriera e non hanno certo voglia di entrare in conflitto col capo. Eppure l’”insolenza” è vitale: permette di conoscere per davvero i reali punti di vista e fa’ scoprire tutte quelle attività che avvengono dietro le quinte e che diversamente non verrebbero mai fuori. Alcuni guru suggeriscono, esagerando, di affidare ufficialmente tale ruolo a qualcuno: “Buffone Aziendale”! reciterebbe il biglietto da visita. Immaginatevi poi l’ilarità dei colleghi.
In realtà quasi tutti hanno un Buffone nascosto: di solito è uno che si colloca al di fuori della cerchia dei più stretti collaboratori, ricopre un ruolo marginale rispetto alla struttura del potere e conosce molto bene i problemi della base ed i meccanismi del vertice. Il profilo psicologico di questa figura ricorda molto il clown di Heinrich Boll: uno che vuole assicurarsi una sorta di zona di sicurezza ideologica compromettendosi il meno possibile sia coi poteri forti che con quelli piccoli. Guai ad approfittarne però, anche il più fedele dei “buffoni” difficilmente tollererebbe uno sgarbo. Come Rigoletto, Buffone di Corte nell’omonimo melodramma verdiano,
che una volta scoperta la tresca del Duca di Mantova con la figlia
Gilda, desidera poi vendicarsi tentando di ucciderlo. (16 settembre 2002) |