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Le doti di un buon capo

Le doti per fare di un “più alto in grado" un leader sono note. Il problema, come sempre, non è tanto la teoria, bensì l’applicazione reale: è normale che una volta raggiunto un posto di comando, si fa' di tutto per conservarlo per un periodo il più lungo possibile. Sarebbe certamente atipico chiedere ad una persona che ha fatto dei sacrifici per raggiungere un obiettivo, di farsi da parte nel momento in cui lo raggiunge.

di Michael Liguori

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Molto spesso ci si interroga sulle doti che dovrebbe avere un buon capo, intendendo con tale termine dal sapore tribale il proprio superiore in grado, sotto qualsiasi forma: capo-ufficio, dirigente, amministratore o presidente. Per quanto riguarda tale tipo di argomento, molto spesso mi viene in mente una frase detta dal comandante della caserma nella quale ho affrontato (ragazzino) la fatidica “visita dei tre giorni”, fase di vita militare nota sicuramente più agli uomini che alle donne. La persona più alta in grado con la quale sono venuto a contatto in quei giorni – nel descrivere la vita di potere – disse all’incirca così: “Più si sale di grado e più non si fa niente!”. Confesso che quella massima ha segnato spesso il mio pensiero sul comando, all’inizio pensavo potesse applicarsi unicamente alla vita militare, in seguito ho cominciato a pensare che fosse così in ogni campo; ma cerchiamo di razionalizzare.
E’ necessario partire – innanzitutto – da quelle che dovrebbero essere le doti universalmente riconosciute per fare di un “più alto in grado”… un leader. L’obiettività, che possa permettere una capacità di valutazione al di sopra dei pregiudizi e delle contingenze; la forza d’animo, in grado di procurare serenità e chiarezza sulla strada da intraprendere; l’umiltà, ascoltare gli altri ed imparare dai propri errori e da quelli altrui; il coraggio, di perseguire le proprie convinzioni; la giustizia, che si concretizza nella poter giudicare i collaboratori meritevoli o meno. Tutte virtù largamente riconosciute come condizione sufficiente e necessaria per trovarsi di fronte ad un grande capo carismatico. Il problema, come sempre, non è tanto la teoria, bensì l’applicazione reale: è umanamente normale – una volta che si è raggiunto un posto di comando – fare in modo di conservarlo per un periodo il più lungo possibile. Sarebbe certamente atipico chiedere ad una persona che ha fatto dei sacrifici per raggiungere un obiettivo, di farsi da parte nel momento in cui lo raggiunge. Non si chiede al leader – infatti – di agire in tal senso, ciò che distingue una buona politica di gestione è sicuramente il saper pensare al futuro. Ciò si dovrebbe concretizzare in una proiezione costante verso il post e non sul presente; nel momento in cui si arriva a poter comandare… cominciare a pensare al proprio successore e cercare di farlo crescere. Sono giudizi da effettuare, ovviamente, sulla base delle famose doti di leadership sopra descritte, ma sicuramente non così scontati. Solo un capo in grado di delegare, quindi, mette in condizione chi si trova gerarchicamente svantaggiato di poter dimostrare quanto sia adatto come candidato al change-over. E’ un tema scottante. Ci si trova a dover gestire un decentramento operativo a danno del leader, con un accentramento del dominio e della gestione dei fenomeni aziendali, a suo favore. In sostanza, molto spesso ciò si esplicita nell’accreditarsi di meriti non propri da parte del capo, fenomeno che ovviamente andrebbe evitato. L’approccio corretto dovrebbe essere – appunto – il lasciare operare e creare agli altri, fornendo solo degli indirizzi e pretendendo come prerogativa la facoltà di giudizio finale.
Consapevoli che – prima o poi – verrà il momento di mettersi da parte.

24 gennaio 2005

 

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