Le doti per fare di un “più alto in
grado" un leader sono note. Il problema, come sempre, non è tanto
la teoria, bensì l’applicazione reale:
è normale che una volta raggiunto un posto di comando,
si fa' di tutto per conservarlo per un periodo il più lungo
possibile. Sarebbe certamente atipico chiedere ad una persona che
ha fatto dei sacrifici per raggiungere un obiettivo, di farsi da
parte nel momento in cui lo raggiunge. |
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Molto
spesso ci si interroga sulle doti che dovrebbe avere un buon capo,
intendendo con tale termine dal sapore tribale il proprio superiore
in grado, sotto qualsiasi forma: capo-ufficio, dirigente,
amministratore o presidente. Per quanto riguarda tale tipo di
argomento, molto spesso mi viene in mente una frase detta dal
comandante della caserma nella quale ho affrontato (ragazzino) la
fatidica “visita dei tre giorni”, fase di vita militare nota
sicuramente più agli uomini che alle donne. La persona più alta in
grado con la quale sono venuto a contatto in quei giorni – nel
descrivere la vita di potere – disse all’incirca così: “Più si sale
di grado e più non si fa niente!”. Confesso che quella massima ha
segnato spesso il mio pensiero sul comando, all’inizio pensavo
potesse applicarsi unicamente alla vita militare, in seguito ho
cominciato a pensare che fosse così in ogni campo; ma cerchiamo di
razionalizzare.
E’ necessario partire – innanzitutto – da quelle che dovrebbero
essere le doti universalmente riconosciute per fare di un “più alto
in grado”… un leader. L’obiettività, che possa permettere una
capacità di valutazione al di sopra dei pregiudizi e delle
contingenze; la forza d’animo, in grado di procurare serenità e
chiarezza sulla strada da intraprendere; l’umiltà, ascoltare gli
altri ed imparare dai propri errori e da quelli altrui; il coraggio,
di perseguire le proprie convinzioni; la giustizia, che si
concretizza nella poter giudicare i collaboratori meritevoli o meno.
Tutte virtù largamente riconosciute come condizione sufficiente e
necessaria per trovarsi di fronte ad un grande capo carismatico. Il
problema, come sempre, non è tanto la teoria, bensì l’applicazione
reale: è umanamente normale – una volta che si è raggiunto un posto
di comando – fare in modo di conservarlo per un periodo il più lungo
possibile. Sarebbe certamente atipico chiedere ad una persona che ha
fatto dei sacrifici per raggiungere un obiettivo, di farsi da parte
nel momento in cui lo raggiunge. Non si chiede al leader – infatti –
di agire in tal senso, ciò che distingue una buona politica di
gestione è sicuramente il saper pensare al futuro. Ciò si dovrebbe
concretizzare in una proiezione costante verso il post e non sul
presente; nel momento in cui si arriva a poter comandare… cominciare
a pensare al proprio successore e cercare di farlo crescere. Sono
giudizi da effettuare, ovviamente, sulla base delle famose doti di
leadership sopra descritte, ma sicuramente non così scontati. Solo
un capo in grado di delegare, quindi, mette in condizione chi si
trova gerarchicamente svantaggiato di poter dimostrare quanto sia
adatto come candidato al change-over. E’ un tema scottante. Ci si
trova a dover gestire un decentramento operativo a danno del leader,
con un accentramento del dominio e della gestione dei fenomeni
aziendali, a suo favore. In sostanza, molto spesso ciò si esplicita
nell’accreditarsi di meriti non propri da parte del capo, fenomeno
che ovviamente andrebbe evitato. L’approccio corretto dovrebbe
essere – appunto – il lasciare operare e creare agli altri, fornendo
solo degli indirizzi e pretendendo come prerogativa la facoltà di
giudizio finale.
Consapevoli che – prima o poi – verrà il momento di mettersi da
parte.
24 gennaio 2005 |