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IL DESERTO DEI TARTARI
di Dino Buzzati

Indice III | II | I | Spotlights | Controcorrente

Prefazione

Dino Buzzati (1906-1972)

Dino Buzzati
(1906-1972)

Giovane cronista poi subito dopo redattore ed inviato anche all'estero, in Etiopia Dino Buzzati trascorse tutta la vita al Corriere della Sera, fino alla malattia che lo portò alla morte. Il deserto dei Tartari, il romanzo con cui si impose all'attenzione della critica, uscì nel 1940 quando Mussolini dichiarava guerra e quindi, per paradosso della storia, considerato libro guerrafondaio. In realtà il romanzo è una lunga metafora sulla vanità dell'esistenza: la vicenda del protagonista il Tenente Drogo fa intuire, in una atmosfera kafkiana, tutte le aspirazioni e di conseguenza le frustrazioni del giovane e intruppato cronista, all'interno della improbabile Fortezza Bastiani (Corriere della Sera). Una fortezza dunque, così come possiamo immaginare essere stata la redazione di questo giornale negli ultimi anni di vita del regime.
Si diceva della narrazione in forma di metafora. Attraverso le vicissitudini del protagonista, lo scrittore affronta il problema esistenziale delle aspettative mancate e la delusione per un riscatto
mai arrivato. In un'intervista al Giorno nel 1959, Buzzati disse infatti che
Il deserto dei Tartari era nato «dalla monotona routine redazionale notturna, che facevo in quei tempi. Molto spesso avevo l'impressione che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. E' un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nella esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva: nulla di meglio di una fortezza all'estremo confine, mi parve, si poteva trovare per esprimere appunto il logorio di quell'attesa».
Il capitolo che qui viene parzialmente proposto per la lettura racconta una delle vicende più drammatiche del romanzo: la morte del soldato Lazzari. Il Lazzari, colpevole del mancato rispetto delle leggi della Fortezza, viene ammazzato da un commilitone che, anche se a malincuore, non può non mettere in atto quanto prevede il regolamento: sparare dopo l'intimazione del terzo "chi va là" se non è stata data la parola d'ordine. La sproporzione tra l'infrazione commessa e la punizione comminata, procura al lettore un profondo disagio e subito ci assale il ricordo di tanti colleghi (commilitoni) licenziati (sparati) per infrazioni di lieve entità, anche se a volte commesse a fin di bene. Lascio poi alla vostra fantasia immaginare le figure corrispondenti al volto impenetrabile del sergente Tronk...
«Come sanguini, disciplina» meditava il poeta René Char nei
Fogli d'Ipnos. Ma le leggi, constatava amaramente Balzac, «sono ragnatele che le mosche grosse sfondano, mentre le piccole ci restano impigliate».

Luca Liguori (9 gennaio 2006)

Il cavallo nero
Capitolo XII
[...]

Venne la guardia nuova a dare il cambio. Drogo e i suoi soldati lasciarono la ridotta, si avviarono di traverso ai ghiaioni per ritornare alla Fortezza, tra le ombre violette della sera. Giunti che furono alle mura, Drogo disse la parola d'ordine per sé e per i suoi uomini, la porta venne aperta, la guardia smontante si schierò in una specie di cortiletto e Tronk cominciò a fare l'appello. Intanto Drogo si allontanò per avvertire il Comando del misterioso cavallo.
Com'era prescritto, Drogo si presentò al capitano d'ispezione, poi insieme andarono a cercare il colonnello; di solito, per le novità, bastava rivolgersi all'aiutante maggiore in prima, ma questa volta poteva essere una cosa grave e non bisognava perdere tempo.
Intanto la voce era corsa fulmineamente per tutta la Fortezza.
Qualcuno, negli estremi corpi di guardia, già parlottava di interi squadroni tartari accampati ai piedi delle rocce. Il colonnello, quando seppe, disse soltanto: «Bisognerebbe cercare di prenderlo, questo cavallo, se ha la sella si potrà forse capire da dove viene».
Ma era ormai inutile perché il soldato Giuseppe Lazzari, mentre la guardia smontante ritornava verso la Fortezza, era riuscito a nascondersi dietro un pietrone, senza che nessuno se ne accorgesse, era poi sceso da solo per i ghiaioni, aveva raggiunto il cavallino ed ora lo riconduceva alla Fortezza. Constatò con stupore che non era il suo, ma non c'era oramai altro da fare.
Soltanto all' atto di entrare nella Fortezza qualche compagno si era accorto che lui era scomparso. Se Tronk fosse venuto a saperlo, il Lazzari sarebbe rimasto in prigione almeno un paio di mesi. Bisognava salvarlo. Perciò, quando il sergente maggiore fece l'appello, e venne il nome del Lazzari, uno rispose per lui «presente».
Qualche minuto più tardi, quando i soldati avevano già rotto le righe, ci si ricordò che il Lazzari non sapeva la parola d'ordine; non si trattava più della prigione ma della vita; guai se si fosse presentato alle mura, gli avrebbero sparato contro. Due tre compagni si misero allora alla ricerca di Tronk perché trovasse un riparo.
Troppo tardi. Tenendo per le briglie il cavallo nero, Lazzari era già vicino alle mura. E sul cammino di ronda c'era Tronk, richiamato lassù da un vago presentimento; subito dopo aver fatto l'appello, un'inquietudine aveva colto il sergente maggiore, lui non riusciva a stabilirne la causa ma intuiva che qualche cosa non andava bene. Riesaminando i fatti della giornata, era arrivato fino al ritorno nella Fortezza senza trovare nulla di sospetto; poi aveva come incontrato un intoppo; sì, all' appello doveva esserci stata un'irregolarità e al momento, come spesso avviene in questi casi, egli non l'aveva avvertita.
Una sentinella faceva la guardia proprio sopra la porta d'ingresso. Nella penombra vide sulle ghiaie due figure nere che venivano avanti. Saranno state a duecento metri. Non ci badò, pensò di avere un' allucinazione: molte volte, nei posti deserti, a stare lungo tempo in attesa si finisce per scorgere, anche in pieno giorno, sagome umane sgusciare fra i cespugli e le rocce, si ha l'impressione che qualcuno ci stia spiando, poi si va a vedere e non c'è nessuno.
La sentinella per distrarsi si guardò attorno, fece un cenno di saluto a un compagno, sentinella una trentina di metri più a destra, si aggiustò il pesante berretto che gli stringeva la fronte, poi volse gli occhi a sinistra e vide il sergente maggiore Tronk, immobile, che lo fissava severamente.
La sentinella si riscosse, guardò ancora dinanzi a sé, vide che le due ombre non erano un sogno, si trovavano oramai vicine, saranno stati appena settanta metri: esattamente un soldato e un cavallo. Allora imbracciò il fucile, preparò il cane allo sparo, si irrigidì nel gesto ripetuto centinaia di volte all'istruzione. Poi gridò: «Chi va là, chi va là?».
Il Lazzari era soldato da poco tempo, non pensava neppure lontanamente che senza la parola d'ordine non sarebbe potUto rientrare. Tutt'al più temeva una punizione per essersi allontanato senza permesso; ma chissà, forse il colonnello l'avrebbe perdonato per via del cavallo recuperato; era una bestia bellissima, un cavallo da generale.
Non mancavano che una quarantina di metri. I ferri del quadrupede risuonavano sulle pietre, era quasi notte completa, si udì un lontano suono di tromba. «Chi va là, chi va là?» ripeté la sentinella. Ancora una volta e poi avrebbe dovuto sparare.
Un improvviso disagio aveva colto il Lazzari al primo richiamo della sentinella. Gli pareva così strano, ora che si trovava personalmente di mezzo, sentirsi interpellare in quel modo da un compagno, ma si rasserenò al secondo "chivalà" perché riconobbe la voce di un amico, proprio della stessa compagnia, che loro chiamavano confidenzialmente Moretto.
«Sono io, Lazzari!» gridò. «Manda il capoposto ad aprirmi! ho preso il cavallo! E non farti accorgere se no mi ficcano dentro!»
La sentinella non si mosse. Con il fucile imbracciato se ne stava ferma, cercando di ritardare al possibile il terzo "chivalà". Forse il Lazzari si sarebbe accorto da solo del pericolo, sarebbe tornato indietro, avrebbe potuto magari aggregarsi il giorno dopo alla guardia della Ridotta Nuova. Ma a pochi metri c'era Tronk che lo fissava severamente.
Tronk non diceva parola. Ora egli guardava la sentinella, ora il Lazzari, per colpa del quale probabilmente sarebbe stato punito.
Che cosa volevano dire i suoi sguardi?
Il soldato e il cavallo non distavano più di trenta metri, aspettare ancora sarebbe stato imprudente. Quanto più vicino si faceva il Lazzari, tanto più facilmente sarebbe stato colpito.
«Chi va là, chi va là?» gridò la terza volta la sentinella e nella voce c'era sottinteso come un avvertimento privato e antiregolamentare. Voleva dire: "Torna indietro fino a che sei in tempo: vuoi farti ammazzare?".
E finalmente il Lazzari capì, si ricordò in un lampo le dure leggi della Fortezza, si sentì perduto. Ma invece di fuggire, chissà perché, lasciò le briglie del cavallo e si fece avanti da solo, invocando con voce acuta:
«Sono io, Lazzari! Non mi vedi? Moretto, o Moretto! Sono io! Ma che cosa fai con il fucile? Sei matto, Moretto?»
Ma la sentinella non era più Moretto, era semplicemente un soldato con la faccia dura che adesso alzava lentamente il fucile, mirando contro l'amico. Aveva appoggiato lo schioppo alla spalla e con la coda dell' occhio sbirciò il sergente maggiore, invocando silenziosamente un cenno di lasciar stare. Invece Tronk stava sempre immobile e lo fissava severamente.
Il Lazzari, senza voltarsi, retrocedette di qualche pasS4it incespicando sulle pietre: «Sono io, Lazzari!» gridava. «Non vedi che sono io? Non sparare, Moretto!»
Ma la sentinella non era più il Moretto con cui tutti i camerati scherzavano liberamente, era soltanto una sentinella della Fortezza, in uniforme di panno azzurro scuro con la bandoliera di mascarizzo, assolutamente identica a tutte le altre nella notte, una sentinella qualsiasi che aveva mirato ed ora premeva il grilletto. Sentiva nelle orecchie un rombo e gli parve di udire la voce rauca di Tronk: "Mira giusto!" benché Tronk non avesse fiatato.
Il fucile fece un piccolo lampo, una minuscola nuvoletta di fumo, anche lo sparo al primo momento non sembrò gran che ma poi fu moltiplicato dagli echi, ripercosso di muraglia in muraglia, restò a lungo nell' aria, morendo in un lontano brontolio come di tuono.
Ora che il dovere era fatto, la sentinella mise il fucile a terra, si sporse dal parapetto, guardò in giù sperando di non avere colpito. E nel buio gli parve infatti che il Lazzari non fosse caduto.
No, il Lazzari era ancora in piedi, e il cavallo gli si era fatto vicino. Poi, nel silenzio lasciato dallo sparo, si udì la sua voce, con che disperato suono: «Oh Moretto, mi hai ammazzato!».
Questo il Lazzari disse e sì afflosciò lentamente in avanti. Tronk, col volto impenetrabile, ancora non si era mosso, mentre un rimescolio guerriero si propagava per i meandri della Fortezza.

Dino Buzzati

 

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