Degli scherni e dei motti
mordaci
[ XIX ] Schernire non si dèe mai persona, quantunque inimica, perché
maggior segno di dispregio pare che si faccia schernendo che
ingiuriando, con ciò sia che le ingiurie si fanno o per istizza o
per alcuna cupidità, e niuno è che si adiri con cosa (o per cosa)
che egli abbia per niente, o che appetisca quello che egli sprezza
del tutto: sì che dello ingiuriato si fa alcuna stima e dello
schernito niuna o picciolissima. Et è lo scherno un prendere la
vergogna che noi facciamo altrui a diletto sanza pro alcuno di noi,
per la qual cosa si vuole nella usanza astenersi di schernire
nessuno: in che male fanno quelli che rimproverano i difetti della
persona a coloro che gli hanno, o con parole, come fece messer
Forese da Rabatta, delle fattezze di maestro Giotto ridendosi, o con
atti, come molti usano, contrafacendo gli scilinguati o zoppi o
qualche gobbo. Similmente chi si ride d'alcuno sformato o malfatto o
sparuto o picciolo, o di sciocchezza che altri dica fa la festa e le
risa grandi, e chi si diletta di fare arrossire altrui: i quali
dispettosi modi sono meritatamente odiati. Et a questi sono assai
somiglianti i beffardi, cioè coloro che si dilettano di far beffe e
di uccellare ciascuno, non per ischerno, né per disprezzo, ma per
piacevolezza. E sappi che niuna differenza è da schernire a beffare,
se non fosse il proponimento e la intentione che l'uno ha diversa
dall'altro, con ciò sia che le beffe si fanno per sollazzo e gli
scherni per istratio, come che nel comune favellare e nel dettare si
prenda assai spesso l'un vocabolo per l'altro: ma chi schernisce
sente contento della vergogna altrui e chi beffa prende dello altrui
errore non contento, ma sollazzo, là dove della vergogna di colui
medesimo, per aventura, prenderebbe cruccio e dolore. E come che io
nella mia fanciullezza poco innanzi procedessi nella grammatica, pur
mi voglio ricordare che Mitione, il quale amava cotanto Eschine che
egli stesso avea di ciò maraviglia, non di meno prendea talora
sollazzo di beffarlo, come quando e' disse seco stesso: -Io vo' fare
una beffa a costui-. Sì che quella medesima cosa a quella medesima
persona fatta, secondo la intention di colui che la fa, potrà essere
beffa e scherno: e perciò che il nostro proponimento male può esser
palese altrui, non è util cosa nella usanza il fare arte così
dubbiosa e sospettosa. E più tosto si vuol fuggire che cercare di
esser tenuto beffardo, perché molte volte interviene in questo, come
nel ruzzare o scherzare, che l'uno batte per ciancia e l'altro
riceve la battitura per villania, e di scherzo fanno zuffa; così
quegli che è beffato per sollazzo e per dimestichezza si reca
talvolta ciò ad onta et a disonore e prendene sdegno, sanza che la
beffa è inganno, et a ciascuno naturalmente duole di errare e di
essere ingannato. Sì che per più cagioni pare che chi procaccia di
esser ben voluto et avuto caro non debba troppo farsi maestro di
beffe. Vera cosa è che noi non possiamo in alcun modo menare questa
faticosa vita mortale del tutto sanza sollazzo né sanza riposo: e
perché le beffe ci sono cagione di festa e di riso e, per
conseguente, di ricreatione, amiamo coloro che sono piacevoli e
beffardi e sollazzevoli. Per la qual cosa pare che sia da dire in
contrario, cioè che pur si convenga nella usanza beffare alle volte
e similmente motteggiare. E sanza fallo coloro che sanno beffare per
amichevol modo e dolce sono più amabili che coloro che no 'l sanno
né possono fare; ma egli è di mestiero avere risguardo in ciò a
molte cose; e, con ciò sia che la intention del beffatore è di
prendere sollazzo dello errore di colui di cui egli fa alcuna stima,
bisogna che l'errore nel quale colui si fa cadere sia tale che niuna
vergogna notabile né alcun grave danno gliene segua: altrimenti mal
si potrebbono conoscere le beffe dalle ingiurie. E sono ancora di
quelle persone con le quali, per l'asprezza loro, in niuna guisa si
dèe motteggiare, sì come Biondello poté sapere da messer Filippo
Argenti nella loggia de' Caviccioli. Medesimamente non si dèe
motteggiare nelle cose gravi, e meno nelle vituperose opere, perciò
che pare che l'uomo, secondo il proverbio del comun popolo, si rechi
la cattività a scherzo, come che a madonna Filippa da Prato molto
giovassino le piacevoli risposte da lei fatte intorno alla sua
disonestà! Per la qual cosa non credo io che Lupo degli Uberti
alleggerisse la sua vergogna, anzi la aggravò, scusandosi per motti
della cattività e della viltà da lui dimostrata, ché, potendosi
tenere nel castello di Laterina, vedendosi steccare intorno e
chiudersi, incontinente il diede, dicendo che nullo Lupo era uso di
star rinchiuso; perché, dove non ha luogo il ridere, quivi si
disdice il motteggiare et il cianciare.
[ XX ] E dèi oltre a ciò sapere che alcuni motti sono che mordono et
alcuni che non mordono; de' primi voglio che ti basti il savio
ammaestramento che Lauretta ne diede, cioè che i motti come la
pecora morde deono così mordere l'uditore, e non come il cane:
perciò che, se come il cane mordesse, il motto non sarebbe motto ma
villania; e le leggi quasi in ciascuna città vogliono che quegli che
dice altrui alcuna grave villania sia gravemente punito; e forse che
si conveniva ordinar similmente non leggieri disciplina a chi
mordesse per via di motti oltra il convenevole modo; ma gli uomini
costumati deono far ragione che la legge che dispone sopra le
villanie si stenda etiandio a' motti, e di rado e leggiermente
pungere altrui. Et oltre a tutto questo, sì dèi tu sapere che il
motto, come che morda o non morda, se non è leggiadro e sottile gli
uditori niuno diletto ne prendono, anzi ne sono tediati, o, se pur
ridono, si ridono non del motto, ma del motteggiatore. E perciò che
niuna altra cosa sono i motti che inganni, e lo ingannare, sì come
sottil cosa et artificiosa, non si può fare se non per gli uomini di
acuto e di pronto avedimento, e spetialmente improviso, perciò che
non convengono alle persone materiali e di grosso intelletto, né
pure ancora a ciascuno il cui ingegno sia abondevole e buono, sì
come per aventura non convennero gran fatto a messer Giovan
Boccaccio; ma sono i motti spetiale prontezza e leggiadria e tostàno
movimento d'animo. Per la qual cosa gli uomini discreti non guardano
in ciò alla volontà, ma alla disposition loro, e, provato che essi
hanno una e due volte le forze del loro ingegno invano, conoscendosi
a ciò poco destri, lasciano stare di pur voler in sì fatto
essercitio adoperarsi, acciò che non avenga loro quello che avenne
al cavaliero di madonna Orretta. E se tu porrai mente alle maniere
di molti, tu conoscerai agevolmente ciò che io ti dico esser vero:
cioè che non istà bene il motteggiare a chiunque vuole, ma solamente
a chi può. E vedrai tale avere ad ogni parola apparecchiato uno,
anzi molti, di quei vocaboli che noi chiamiamo bistìccichi, di niun
sentimento; e tale scambiar le sillabe ne' vocaboli per frivoli modi
e sciocchi; et altri dire o rispondere altrimenti che non si
aspettava, sanza alcuna sottigliezza o vaghezza: -Dove è il signore?
-Dove egli ha i piedi!- e -Gli fece ugner le mani con la grascia di
San Giovan Boccadoro- e -Dove mi manda egli?- -Ad Arno!-; -Io mi
voglio radere- -E' sarebbe meglio rodere!-; -Va chiama il barbieri-
-E perché non il barba ... domani?!-: i quali, come tu puoi
agevolmente conoscere, sono vili modi e plebei; cotali furono, per
lo più, le piacevolezze et i motti di Dioneo. Ma della più bellezza
de' motti e della meno non fia nostra cura di ragionare al presente,
con ciò sia che altri trattati ce ne abbia, distesi da troppo
migliori dettatori e maestri che io non sono, et ancora perciò che i
motti hanno incontinente larga e certa testimonianza della loro
bellezza e della loro spiacevolezza, sì che poco potrai errare in
ciò, solo che tu non sii soverchiamente abbagliato di te stesso,
perciò che dove è piacevol motto ivi è tantosto festa e riso et una
cotale maraviglia. Laonde, se le tue piacevolezze non saranno
approvate dalle risa de' circonstanti, sì ti rimarrai tu di più
motteggiare, perciò che il difetto fia pur tuo, e non di chi
t'ascolta, con ciò sia cosa che gli uditori, quasi solleticati dalle
pronte o leggiadre o sottili risposte o proposte, etiandio volendo,
non possono tener le risa, ma ridono mal lor grado; da' quali, sì
come da diritti e legitimi giudici, non si dèe l'uomo appellare a se
medesimo, né più riprovarsi. Né per far ridere altrui si vuol dire
parole né fare atti vili né sconvenevoli, storcendo il viso e
contrafacendosi, ché niuno dèe, per piacere altrui, avilire sé
medesimo, che è arte non di nobile uomo, ma di giocolare e di
buffone. Non sono adunque da seguitare i volgari modi e plebei di
Dioneo («madonna Aldruta, alzate la coda...»), né fingersi matto, né
dolce di sale, ma, a suo tempo, dire alcuna cosa bella e nuova e che
non caggia così nell'animo a ciascuno, chi può, e chi non può,
tacersi: perciò che questi sono movimenti dello 'ntelletto, i quali,
se sono avvenenti e leggiadri, fanno segno e testimonianza della
destrezza dell'animo e de' costumi di chi gli dice, la qual cosa
piace sopra modo agli uomini e rendeci loro cari et amabili, ma, se
essi sono al contrario, fanno contrario effetto, perciò che pare che
l'asino scherzi, o che alcuno forte grasso e naticuto danzi o salti
spogliato in farsetto.
Giovanni Della Casa |