L'alveare scontento, ovvero i furfanti diventati onesti
Un grande alveare affollato di api, che viveva nel lusso e negli
agi, e, tuttavia, tanto famoso per leggi e armi, quanto fecondo di
numerosi e vitali sciami, era considerato la grande culla delle
scienze e delle arti. Mai api ebbero governo migliore, né mai furono
più inquiete e scontente. Esse non erano schiave di una tirannide,
né governate da una rozza democrazia, ma da re, che non facevano
ingiustizia perché la legge ne limitava il potere. [...]
Molto affollato era il fecondo alveare, ma era proprio il gran
numero a farlo prosperare. Milioni di esseri si sforzavano
d'appagare la reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni
erano intenti a consumare !'ingegnoso lavoro di quelli. Rifornivano
metà dell'universo, e avevano, tuttavia, più lavoro che lavoratori.
Alcuni, con poca fatica e molto denaro, si lanciavano in affari di
gran guadagno, altri erano condannati alla falce e alla vanga e a
quei duri e pesanti mestieri nei quali miserabili di buona volontà
si affaticano ogni giorno e logorano forze e braccia, per mangiare.
Mentre altri facevano mestieri per i quali pochi fanno
apprendistato, che non richiedono che sfrontatezza e possono essere
avviati senza un soldo: truffatori, parassiti, mezzani, giocatori, borsaiuoli, falsari, ciarlatani, indovini, e tutti quelli che, con
inimicizia, astutamente volgono senza scrupoli a loro vantaggio la
fatica del prossimo buono, ma malaccorto. Costoro venivano chiamati
furfanti ma, eccetto che per il nome, da essi non differivano quelli
che lavoravano veramente. Mestieri e impieghi avevano tutti i loro
imbrogli, non c'era professione che non avesse i suoi trucchi. [...]
Ma chi potrebbe ridir tutti gli inganni? Persino i rifiuti che si
vendevano per strada come concime per ingrassar la terra, spesso
erano, per un quarto, mescolati con pietre e ciottoli
inutilizzabili, e il contadino brontolava lui che vendeva burro
pieno di sale. [...]
Così ciascuna parte era piena di vizi, ma l'insieme un paradiso;
adulate in pace e temute in guerra, erano rispettate dagli stranieri
e, prodighe delle loro ricchezze e delle loro vite, erano la
bilancia di tutti gli altri alveari. Tali erano le benedizioni di
questo Stato: le loro stesse colpe contribuivano alla loro
grandezza, e la virtù, che dalla politica aveva appreso mille
astuzie, per questa felice influenza era diventata amica del vizio;
e, quindi, anche la peggiore delle api faceva qualche cosa per il
bene comune. [...]
Ma come è vana la felicità dei mortali! Avessero esse solo
conosciuto i limiti della felicità, e che la perfezione quaggiù
è più di quel che gli dèi possono concedere, le insensate che
brontolavano se ne sarebbero state contente coi loro ministri e col
loro governo. Ma esse invece, a ogni insuccesso, come creature
perdute senza riparo, maledicevano politici, esercito, flotta, e
ognuna gridava: Abbasso gli imbrogli! e ingiustamente, benché
consapevole dei propri, non voleva sopportare quelli degli altri.
[...]
Alla minima cosa mal fatta e che intralciava gli affari pubblici
tutte quelle malandrine senza pudore gridavano: Santi dèi, se solo
ci fosse un po' di onestà! Mercurio sorrideva a tanta impudenza e
gli altri chiamavano mancanza di buon senso questo inveire contro
quel che amavano, ma Giove, preso da indignazione, alla fine, irato,
giurò che avrebbe liberato lo schiamazzante alveare dalla frode, e
lo fece. In quel preciso momento questa si allontana e l'onestà
colma i loro cuori e mostra loro, come il famoso albero, quelle
colpe di cui esse si vergognavano e che in silenzio ora confessano,
arrossendo per le loro cattiverie, come bimbi, che vorrebbero
nascondere una monelleria e, col rossore, rivelano i loro pensieri,
immaginando, se qualcuno li guarda, che gli si legge in fronte quel
che hanno fatto.
Ma, o dèi, quale costernazione! Che grande e repentina
trasformazione! In mezz'ora, in tutta la nazione, la carne diminuì
di un penny per libbra, cadde la maschera dell'ipocrisia al
grande statista ed al villano, ed alcuni, notissimi nel falso
aspetto che avevano assunto, apparvero, al naturale, come stranieri.
Da quel giorno il tribunale fu vuoto, poiché adesso i debitori
pagavano spontaneamente anche i debiti che i creditori avevano
dimenticato, e costoro li rimettevano a quelle che non potevano
pagare. Quelle che erano in torto tacevano e lasciavano cadere i
processi cavillosi e vessatori, dal momento che niente poteva
prosperare meno degli avvocati in un alveare onesto, tutti, eccetto
quelli che avevano guadagnato abbastanza, con i loro calamai se ne
andarono in frotta. [...]
Guardate ora il glorioso alveare e vedrete come onestà e commercio
vanno d'accordo. Ma lo spettacolo dura poco, rapidamente si dilegua
e mostra tutt'altro aspetto, poiché, non soltanto se ne sono andate
quelle che ogni anno spendevano grandi somme, ma molte, che ci
vivevano sopra, sono anch'esse quotidianamente obbligate ad
andarsene. Invano hanno tentato altri mestieri, tutti sono
ugualmente affollati.
Crolla il prezzo della terra e delle case; meravigliosi palazzi, le
cui mura, come quelle di Tebe, vennero innalzate con la musica,
devono esser dati in affitto, e gli dèi familiari, un tempo lieti
nelle ricche dimore, avrebbero preferito morire tra le fiamme
piuttosto che vedere la volgare scritta sulla porta irridere a
quelle superbe di cui si adornarono. L'arte del costruire è ormai
finita, gli artigiani sono senza lavoro. Non c'è più un sol pittore
famoso per la sua arte, e sconosciuti sono gli scalpellini e gli
scultori. [...]
E mentre vanità e lusso diminuiscono, anche le vie del mare sono
abbandonate. Non ci sono più mercanti, e intere fabbriche vengono
chiuse. Tutte le arti e i mestieri sono negletti: l'accontentarsi
del proprio stato, rovina dell'industria, le induce ad apprezzare i
prodotti del paese e a non cercare né desiderare altro. In così
poche rimangono nel grande alveare, che non possono difenderne la
centesima parte dagli attacchi dei numerosi nemici, ai quali
tuttavia esse resistono valorosamente, finché si ritirano in un
rifugio fortificato, e qui difendono il loro territorio o muoiono.
Non ci sono mercenari nel loro esercito, e, poiché combattono
eroicamente per la patria, il loro coraggio e la loro lealtà sono
infine coronati da vittoria. Ma trionfarono non senza perdite: molte
migliaia di api perirono. Indurite dalla fatica e dall'esercizio,
considerarono un vizio lo stesso riposo, e ciò rafforzò talmente la
loro sobrietà che, per evitare ogni eccesso, volarono nel cavo di un
albero tutte soddisfatte e oneste.
Morale
Cessate dunque di brontolare: soltanto i pazzi si sforzano di far
diventare onesto un grande alveare. Godere dei piaceri del mondo,
essere famosi in guerra, e pure vivere in pace, senza grandi vizi, è
una vana utopia dell'intelletto. Frode, lusso e superbia debbono
esistere fino a quando ne cogliamo i benefici. La fame è una piaga
spaventosa, non c'è dubbio, ma senza d'essa, chi digerisce e gode
buona salute? Non dobbiamo il vino alla vite misera e contorta che,
fin quando cresceva liberamente, soffocava le altre piante e dava
solo legna, ma ci allietò del suo nobile frutto quando fu legata e
potata? Così il vizio diventa benefico quando è sfrondato e corretto
dalla giustizia. Anzi, se un popolo aspira a essere grande, il vizio
è necessario allo Stato quanto la fame per mangiare. La virtù da
sola non può far vivere le nazioni nello splendore; coloro che
vorrebbero far tornare l'età dell'oro insieme con l'onestà debbono
accettare le ghiande.
Bernard de Mandeville
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