I Con queste parole
credevo di essermi liberato dall'obbligo di conversare. Invece, a
quanto sembra, quello era solo il preludio! Infatti Glaucone, sempre
molto aggressivo con tutti, anche in quella circostanza non accettò
la rinuncia di Trasimaco, e disse: «Tu, Socrate, vuoi credere di
averci persuasi, oppure intendi convincerci davvero che la giustizia
è comunque migliore dell'ingiustizia?».
«In verità» risposi «questo sarebbe il mio desiderio, se dipendesse
da me.» «Ma allora» obiettò «non raggiungi il tuo scopo. Dimmi
infatti: ti sembra che esista un bene tale da poter essere accettato
solo per se stesso, senza tenere conto delle conseguenze, come la
gioia e tutti i piaceri inoffensivi che mirano soltanto al diletto
di chi ne gode?» «lo credo» risposi «che qualcosa del genere
esista.»
«E non c'è forse un bene che apprezziamo per se stesso e per le sue
conseguenze, per esempio possedere l'intelligenza, la vista e la
salute? Beni siffatti si apprezzano appunto per entrambi i motivi.»
«Certo» dissi.
«E non ravvisi una terza specie del bene, di cui fanno parte la
ginnastica, la guarigione da una malattia, la medicina e le altre
professioni redditizie? Possiamo affermare che questi sono beni
faticosi ma utili, e non vorremmo possederli per se stessi, bensì
solo per il guadagno e gli altri vantaggi che se ne ricavano.»
«Sì,» dissi «esiste anche questa terza specie: e con ciò?»
«E a quale delle tre appartiene, a tuo parere, la giustizia?»
«Alla migliore, io credo,» risposi «ossia a quella che occorre
apprezzare per se stessa e per le sue conseguenze, se si desidera la
felicità.»
«Eppure la gente non la pensa così, dato che classifica la giustizia
fra i beni faticosi, che occorre coltivare per il guadagno, per la
fama e gli onori, ma evitare per se stessi appunto perché
spiacevoli.»
II «Certo» dissi «la gente la pensa così, e già da un pezzo
Trasimaco sta rimproverando di questo la giustizia e lodando
l'ingiustizia. Ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio!»
«Ma via!» disse. «Ascolta anche me, e forse mi darai ragione. Io
penso che Trasimaco, come un serpente, troppo presto sia rimasto
incantato da te, e non sono ancora convinto del modo in cui l'una e
l'altra tesi sono state dimostrate. Infatti vorrei comprendere la
natura della giustizia e dell'ingiustizia, nonché i loro effetti
sull'animo umano, senza tenere conto dei guadagni e delle
conseguenze che ne derivano. Perciò, se tu sei d'accordo, procederò
così. Riprenderò il discorso di Trasimaco, e innanzi tutto spiegherò
l'opinione comune sulla natura e sull'origine della giustizia. In
secondo luogo affermerò che tutti la praticano loro malgrado perché
è inevitabile, non certo perché la ritengano un bene; e infine
dimostrerò che hanno ragione di comportarsi così: infatti la vita
dell'uomo ingiusto è molto migliore, o almeno così dicono, di quella
dell'uomo giusto - io però, Socrate, non sono di questo avviso.
Tuttavia sono imbarazzato, perché ho piene le orecchie dei discorsi
di Trasimaco e di moltissimi altri, mentre non ho ancora udito
nessuno difendere, come vorrei, la tesi che la giustizia è
preferibile all'ingiustizia. E desidererei anche sentirla lodare per
se stessa, e soprattutto da te me l'aspetto! Così mi dilungherò a
esaltare l'esistenza dell'ingiusto, ma le mie parole ti mostreranno
quanto desiderio io provi di sentirti biasimare l'ingiustizia e
approvare la giustizia. Ti piace la mia proposta?»
«Moltissimo!» dissi. «Quale altro argomento si potrebbe dire e
ascoltare più spesso con altrettanto piacere?»
«È verissimo!» soggiunse. «Ascolta allora la prima parte del mio
discorso, sulla natura e sull'origine della giustizia.
«Si dice in genere che per natura è bene commettere ingiustizia e
male subirla, e che subirla è un male peggiore di quanto sia bene
commetterla. Quando dunque gli uomini si offendono a vicenda e
provano entrambe le condizioni, quelli che non giungono a evitare
l'una e a ottenere l'altra, stimano opportuno accordarsi per non
recare né subire ingiustizia. Questa è stata l'origine delle loro
leggi e dei loro patti, e alle loro prescrizioni diedero il nome di
legalità e di giustizia. Questa è l'origine e la natura della
giustizia, che sta in mezzo fra la condizione migliore - quella di
chi offende impunemente - e la peggiore - quella di chi viene offeso
senza potersi vendicare. Ma la giustizia, appunto perché intermedia
fra questi due estremi, non viene amata come un bene, ma soltanto
come qualcosa che si apprezza quando si è incapaci di prevalere. Chi
infatti potesse commettere ingiustizia e fosse un vero uomo, non
acconsentirebbe mai a non recare né a subire ingiustizia: da parte
sua sarebbe una follia! Questa dunque, Socrate, è la natura della
giustizia, e tale la sua origine secondo l'opinione comune.
III «Per comprendere che anche chi pratica la giustizia si
comporta così suo malgrado e solo perché non può commettere
ingiustizia, l'espediente più opportuno è ricorrere a una situazione
immaginaria. Concediamo ad entrambi, all'uomo giusto e all'ingiusto,
la possibilità di fare ciò che vogliono, e poi seguiamoli osservando
dove i loro desideri guideranno l'uno e l'altro. Allora
sorprenderemo l'uomo giusto a percorrere la stessa strada
dell'ingiusto a causa dell'avidità, che per natura ogni essere
insegue come il proprio bene, quantunque la legge lo costringa con
la forza ad onorare l'uguaglianza. E tale possibilità si
realizzerebbe al più alto grado, se essi avessero quella risorsa che
ebbe un tempo, a quanto si racconta, Gige, l'antenato di Creso re di
Lidia. Egli era al servizio, in qualità di pastore, del sovrano che
allora regnava in Lidia. Un giorno, durante un violento terremoto
accompagnato dal temporale, la terra si spaccò e produsse una
fenditura nel luogo in cui egli faceva pascolare il gregge. Gige la
vide e scese giù pieno di stupore. Fra le molte meraviglie che
scorse c'era, a quanto si narra, un cavallo di bronzo, cavo, con
delle aperture. Egli v'infilò il capo e vide là dentro un cadavere
di dimensioni sovrumane, assolutamente spoglio ma con un anello
d'oro a una mano. Gige se lo mise al dito e uscì. Con tale anello
partecipò anch'egli alla consueta riunione dei pastori per dare al
re il rendiconto mensile sullo stato del gregge. Ma mentre era
seduto con i compagni girò per caso il castone dell'anello verso di
sé, all'interno della mano; e così divenne invisibile, e quelli
seduti accanto a lui dissero che se n'era andato via. Egli allora,
stupefatto, toccò di nuovo l'anello, voltò il castone verso
l'esterno e appena l'ebbe voltato ritornò visibile. In
considerazione di ciò, Gige ripeté il tentativo, per controllare il
potere dell'anello: effettivamente constatò che quando voltava il
castone verso l'interno egli diventava invisibile, e ritornava
visibile quando lo voltava verso l'esterno. Non appena ebbe compreso
ciò, fece in modo di essere incluso fra gli informatori del re.
Giunse alla reggia, divenne l'amante della regina e con lei congiurò
contro il re, lo uccise e prese il potere.
«Se dunque esistessero due anelli così e l'uno se lo infilasse al
dito l'uomo giusto e l'altro l'uomo ingiusto, credo che nessuno
sarebbe così costante da persistere nella giustizia e avere il
coraggio di astenersi dai beni altrui senza neppure toccarli,
malgrado la possibilità di prendere al mercato ciò che volesse, di
entrare nelle case e unirsi con chi gli piacesse, e di uccidere
qualcuno e liberare qualcun altro a suo arbitrio, e di fare tutto
quanto lo rendesse fra gli uomini simile a un dio. Ma comportandosi
così non sarebbe affatto diverso dall'altro uomo, anzi
percorrerebbero entrambi la medesima strada. E in ciò si potrebbe
scorgere una grande prova del fatto che nessuno è giusto di propria
volontà, ma solo per forza, non perché ritenga la giustizia
vantaggiosa di per sé: infatti ognuno, quando ritiene di poter
commettere ingiustizia, la commette. E ognuno crede che
l'ingiustizia gli sia molto più utile della giustizia; e ha ragione
di crederlo, secondo il difensore di questa tesi. Chi infatti
possedesse un simile potere eppure non volesse mai prevalere e
nemmeno toccare i beni altrui, parrebbe a chi ne fosse al corrente
l'uomo più infelice e più stolto; ma in pubblico lo. loderebbero,
ingannandosi a vicenda per timore di ricevere un danno. Proprio così
stanno le cose!
IV «Per valutare poi l'esistenza delle persone di cui stiamo
parlando, potremo pronunciarci correttamente solo distinguendo
l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; altrimenti no. Ma come
distinguerli? Ecco: attribuiamo all'ingiusto tutta l'ingiustizia, e
al giusto tutta la giustizia, consideriamo ognuno dei due al più
alto grado della sua condotta in proposito.
«Innanzi tutto, dunque, supponiamo che l'ingiusto si comparti come
gli artigiani particolarmente abili, per esempio. come un timoniere
espertissimo, o come un medico capace di distinguere nell'esercizio
della sua professione ciò che è impossibile da ciò che è possibile,
e di applicarsi a queste e di trascurare quello. E se commette un
errore, è pure in grado di rimediarvi. Allo stesso modo, anche
l'uomo ingiusto, se veramente vuol essere tale, deve realizzare
accortamente le sue ingiustizie, passando inosservato; chi viene
scoperto dev'essere considerato mediocre, perché il culmine
dell'ingiustizia consiste proprio nel sembrare giusto senza esserlo.
Dunque all'uomo completamente ingiusto occorre concedere la perfetta
ingiustizia, anziché toglierla, e permettergli di procurarsi la
massima reputazione di giustizia malgrado la sua somma ingiustizia.
E inoltre occorre concedergli, in caso di errore, la capacità di
porvi riparo, di parlare in modo persuasivo se qualche sua colpa
venga denunciata, e di agire con prepotenza in ciò che richiede
prepotenza, grazie al suo coraggio, al suo vigore e alla
disponibilità di amici e di denaro. A un uomo simile supponiamo di
contrapporre l'uomo giusto, schietto e nobile, desideroso non di
sembrare ma di essere buono, come dice Eschilo. Occorre però
privarlo di tale apparenza. Se infatti sembrerà giusto, egli avrà
onori e ricompense per questa sua fama, e dunque non si
comprenderebbe se costui si comporti così in vista della giustizia
o, invece, dei regali e degli onori. Occorre perciò privarlo di
tutto meno che della giustizia, e in tali condizioni opporlo al suo
rivale. Pur non agendo male, egli abbia la fama di somma ingiustizia
per essere messo alla prova: così si vedrà se non verrà contaminato
dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; rimanga invece costante
fino alla morte, sempre virtuoso eppure sempre considerato ingiusto.
Così l'uno e l'altro, giunti al culmine rispettivamente della
giustizia e dell'ingiustizia, verranno sottoposti a giudizio, e si
deciderà quale dei due sia più felice. »
[…]
Platone |