L'ignorante
Moscione è mandato dal padre a commerciare al Cairo per
allontanarlo da casa, dove faceva l'arciasino, e, incontrando per
strada passo dopo passo uomini abili, se li porta appresso e grazie
a loro se ne torna a casa tutto carico d'argento e d'oro.
Non mancarono intorno al
principe cortigiani che avrebbero mostrato la collera nel sentirsi
toccati sul vivo, se la loro arte non fosse stata appunto quella
della simulazione, né saprei dire se gli avesse dato più fastidio il
dispetto di vedersi rinfacciata la loro furfanteria o l'invidia di
sentire della felicità di Corvetto; ma, cominciando a parlare, Paola
tirò fuori dal pozzo della loro passione il loro cuore con l'uncino
di queste parole: "Da sempre fu lodato molto di più un ignorante che
frequenta uomini virtuosi piuttosto che un uomo saggio che pratica
gente dappoco: perché quanto grazie a quelli può guadagnare vantaggi
e grandezze, tanto per colpa di questi può perdere sostanze e onori
e, se con la prova del bastoncino si riconosce il prosciutto, dal
caso che vi racconterò conoscerete se è vero quanto vi ho detto.
C'era una volta un padre, ricco come il mare, ma, dato che non si
può avere una felicità completa sul mondo, aveva un figlio così
sciagurato e dappoco che non sapeva distinguere le carrube dai
cetrioli: per questo, non riuscendo più a digerire le sue
sciocchezze, gli diede un bel mucchio di denari e lo mandò a
commerciare a Levante, sapendo che vedere vari paesi e praticare
genti diverse sveglia l'ingegno, aguzza il giudizio e rende l'uomo
capace.
Moscione, così si chiamava il figlio, salito a cavallo, cominciò a
galoppare verso Venezia, arsenale delle meraviglie del mondo, per
imbarcarsi su qualche vascello che andasse al Cairo. E, dopo aver
viaggiato un intero giorno, trovò uno che stava fermo ai piedi di un
pioppo e gli disse: «Come ti chiami, giovane mio? di dove sei? e che
arte conosci?». E quello rispose: «Mi chiamo Furgolo, sono di
Saetta, e so correre come un lampo». «Vorrei averne una prova»,
replicò Moscione. E Furgolo disse: «Aspetta un po' e vedrai se è
polvere o farina!». E aspettando un pochino ecco una cerva per la
campagna e Furgolo, dopo aver lasciato che andasse un tratto avanti
per darle più vantaggio, si mise a correre così velocemente e con
piede così leggero che sarebbe passato su una distesa di farina
senza lasciarci la forma della scarpa, tanto che in quattro salti la
raggiunse. Per questo Moscione, meravigliato, gli disse se voleva
restare con lui, l'avrebbe pagato profumatamente e, poiché Furgolo
era d'accordo, continuarono il viaggio insieme.
Ma non avevano camminato per altre quattro miglia che incontrarono
un altro giovane, a cui Moscione disse: «Come ti chiami amico? di
che paese sei e che arte conosci?». E quello rispose: «Mi chiamo
Orecchie-di-Iepre, sono di Vallecuriosa e, mettendo le orecchie a
terra, senza muovermi sento quello che succede al mondo, ascoltando
gli accordi e gli intrighi che combinano gli artigiani per aumentare
i prezzi delle merci, le malazioni dei cortigiani, i cattivi
consigli dei ruffiani, gli appuntamenti degli innamorati, gli
accordi dei ladri, le lamentele dei servi, i rapporti delle spie, i
pissi-pissi delle vecchie, le bestemmie dei marinai, tanto che il
gallo di Luciano e la lucerna di Franco non vedevano quanto vedono
queste mie orecchie». «Se questo è vero», rispose Moscione, «dimmi:
che si dice a casa mia?». E quello messe le orecchie a terra disse:
«Un vecchio parla con la moglie e dice: - Sia lodato il Solleone,
perché sono riuscito a togliermi dagli occhi quel Moscione, quella
faccia di tasca vecchia, quel chiodo del mio cuore, che almeno,
camminando per il mondo, diventerà un uomo e non sarà più così
bestia come un asino, un falcaccio, un perdigiorno!)». «Basta, basta
», disse Moscione, «dici la verità e ti credo! perciò vieni con me,
hai trovato la tua fortuna». «Vengo», disse il giovane.
E, cosl andandosene insieme, percorse altre dieci miglia trovarono
un altro a cui Moscione disse: «Come ti fai chiamare, uomo dabbene
mio? dove sei nato e che cosa sai fare su questo mondo?». E quello
rispose: «Mi chiamo Cecadritto, sono di Castello-tira-giusto e so
colpire con tanta precisione con questa balestra che taglio a metà
un giuggiolo». «Vorrei vedere questa prova», replicò Moscione e
quello, caricata la balestra, presa la mira fece saltare un cecio da
sopra una pietra, per questo Moscione se lo prese come l'altro per
sua compagnIa.
E, dopo aver viaggiato per un altro giorno, incontrò certi uomini
che costruivano un bel molo sotto la vampa del sole, che avrebbero
potuto con ragione cantare: Parrella, aggiungi acqua al vino, perché
mi brucia il cuore; gli fecero tanta compassione che gli disse: «E
come, mastri miei, avete la forza di restare in questa calcara, dove
si potrebbe cuocere una placenta di bufala?». Uno di quelli rispose:
«Noi stiamo freschi come rose perché abbiamo un giovane che ci
soffia da dietro tanto che sembra che soffi il vento di ponente». E
Moscione disse: «Lasciatemelo vedere, e dio vi guardi». E quando i
muratori chiamarono il giovane, Moscione gli disse: «Come ti fai
chiamare, accidenti a mio padre? di che paese sei? e che sai fare?».
E quello rispose: «lo mi chiamo Soffiarello, sono di Terraventosa e
so fare con la bocca tutti i venti: se vuoi zefiri ti faccio felice,
se vuoi refoli faccio cadere le case». «Non ci credo se non lo
vedo», disse Moscione e Soffiarello soffiò dapprima dolcemente
dolcemente, sembrava il vento che soffia a Posillipo verso sera e,
voltatosi all'improvviso verso alcuni alberi, soffiò un tale vento
furioso che sradicò tutto un filare di querce. Vedendo questo
Moscione se lo prese per compagno.
E, dopo aver camminato per altrettanto tempo, incontrò un altro
giovane e gli disse: «Come ti chiami, non prenderlo per un comando?
di dove sei, se si può sapere? e che arte conosci, se è permessa la
domanda?». E quello rispose: «Mi chiamo Forteschiena, sono di
Valentino e ho questa capacità: mi metto una montagna sulla schiena
e mi sembra una piuma». «Se cosi fosse», disse Moscione,
«meriteresti di essere il re della dogana e porteresti il palio il
primo di maggio, ma ne vorrei vedere la prova». E Forteschiena
cominciò a caricarsi di pezzoni di pietra, di tronchi d'albero e di
tanti altri pesi che non li avrebbero portati mille grandi carri.
Quando vide questo Moscione si accordò perché restasse con lui.
E cosi, camminando, arrivarono a Belfiore, dove c'era un re che
aveva una figlia che correva come il vento e sarebbe stata capace di
correre sui broccoli in fiore senza piegarne le cime e che aveva
pubblicato un bando: a chi l'avesse vinta nella corsa l'avrebbe data
in moglie e avrebbe tagliato il collo a chi fosse rimasto indietro.
Moscione, arrivato in questo paese e sentito questo bando, andò dal
re e si offri di correre con la figlia e, fatti buoni patti: o
muovere i piedi o lasciarci la zucca, la mattina fece capire al re
che gli era preso un malanno e, non potendo correre lui stesso,
avrebbe fatto correre al posto suo un altro giovane. « Venga chi
vuole », rispose Ciannetella, che era la figlia del re, «perché non
me ne importa un fico secco e ce n'è per tutti».
Cosi, la piazza era piena di gente che voleva vedere la corsa, gli
uomini si affollavano alle finestre come formiche e i terrazzi
erano pieni come uova, comparve Furgolo, che si mise a un'estremità
della piazza aspettando il segnale di partenza. Ed eccoti venire
Ciannetella con una gonnella rimboccata: a mezza gamba e con una
scarpetta a una suola bella e attillata, che non era di misura
superiore al dieci. E, allineati spalla a spalla e sentito il
tarantara e il tutù della trombetta, si misero a correre tanto che i
talloni gli toccavano le spalle. Pensa che sembravano lepri
inseguite dai levrieri, cavalli fuggiti dalla stalla, cani con le
vesciche sulla coda, asini con un bastone infilato là dietro.
Ma Furgolo, che era tale di nome e di fatto, se la lasciò più di un
palmo indietro e, arrivati al traguardo, avresti dovuto sentire le
urla, i guarda là, il chiasso, gli strilli, i fischi, i battimani e
piedi della gente che gridava: «Viva viva lo straniero!». Per
questo Ciannetella arrossi come il culo di uno scolaro che ha preso
la bastonatura, scornata e offesa nel vedersi vinta.
Ma, poiché la corsa doveva essere ripetuta due volte, pensò di
vendicarsi di questo affronto e, andata a casa, fece subito un
incantesimo a un anello: a chi lo teneva al dito si piegavano le
gambe tanto che non avrebbe potuto camminare, non soltanto correre,
e lo mandò in regalo a Furgolo, perché lo portasse al dito per amor
suo.
Orecchie di-lepre, che senti di questa congiura tra la figlia e il
padre, stette zitto e attese l'esito della faccenda e quando al
trombettìo degli uccelli il Sole frustò la Notte sull'asino delle
ombre ― tornarono in campo e, dato il solito segnale, cominciarono a
muovere i talloni. Ma non tanto Ciannetella sembrava un'altra
Atlanta quanto Furgolo era diventato un asino slombato e un cavallo
sfiancato, non riusciva a muovere un passo.
Ma Cecadritto, che vide il compagno in pericolo e sentito da
Orecchie-di-Iepre come andava la faccenda, impugnò la balestra, tirò
una freccia, colpendo giusto il dito di Furgolo, facendo saltare
dall'anello la pietra dove era la potenza dell'incantesimo, per
questo gli si sciolsero le gambe annodate e con quattro salti da
capriolo oltrepassò Ciannetella e vinse la gara.
Il re, vedendo che aveva vinto un grullo, che la palma era in mano a
un falcaccio, che il trionfo toccava a un pecorone, meditò se
dovesse o no dargli la figlia e, fatta una riunione con i sapienti
della sua corte, gli fu risposto che Ciannetella non era boccone per
i denti di uno scalzacani e di un uccello perdigiorno e che, senza
vergogna perché mancava alla parola data, avrebbe potuto commutare
la promessa della figlia con un donativo in danari, che sarebbe
stato più soddisfacente per questo bruttone miserabile di tutte le
femmine del mondo.
Al re piacque questo parere e fece chiedere a Moscione quanto danaro
volesse in luogo della moglie che gli era stata promessa e lui,
consigliatosi con gli altri, rispose: «lo voglio tanto oro e argento
quanto ne può portare sulla schiena un mio compagno». E, poiché il
re fu d'accordo, fecero venire Forteschiena, sul quale cominciarono
a caricare mucchi di bauli di soldoni, sacchi di patacche, borsoni
di scudi, barili di monete di rame, scrigni di collane e anelli; ma,
quanto più caricavano tanto più Forteschiena restava saldo, come una
torre, tanto che, non bastando la tesoreria, le banche, gli usurai,
i cambiavalute della città, il re mandò da tutti i cavalieri a
chiedere in prestito candelieri, bacili, boccali, sottocoppe,
piatti, guantiere, canestri e persino i vasi da notte d'argento e
neanche bastarono a fare il peso giusto. Alla fine, non carichi ma
soddisfatti e impazienti, se ne partirono.
Ma i consiglieri, che videro questo tesoro senza fondo che quei
quattro scalzacani si portavano via, dissero al re che era una
grande sciocchezza far portar via tutto il nerbo del suo regno e
quindi sarebbe stato meglio mandare dietro le truppe per alleggerire
di un cos1 grande carico quell'Atlante che portava sulle spalle un
cielo di tesori.
Il re si adeguò a quel consiglio e spedì subito un poco di armati a
piedi e a cavallo perché li raggiungessero. Orecchie-di-lepre, che
aveva sentito di questa decisione, avvertì i compagni; e, mentre
arrivava al cielo la polvere di chi veniva a scaricare questa ricca
soma, Soffiarello, che vide la faccenda male avviata, cominciò a
soffiare in modo che non solo fece cadere a faccia a terra tutti i
nemici, ma li mandò, come fanno i venti del settentrione a quelli
che camminano per la campagna, più di un miglio lontano.
Per questo senza altri ostacoli arrivarono a casa del padre, dove,
dividendo con i compagni il guadagno ― perché si dice: a chi ti fa
vincere la ciambella danne un pezzo ― li congedò, soddisfatti e
contenti, e lui restò con il padre ricco senza fondo e si vide così
un asino carico d'oro, confermando la verità del motto:
dio manda i biscotti a chi non
ha denti".
Giambattista Basile
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