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Antonio Fazio
Governatore della Banca d'Italia |
Antonio Fazio, si sa, è cattolico ed è anche un fervente
estimatore del suo illustre conterraneo San Tommaso d'Aquino, di cui
spesso cita passi delle sue importanti opere. L'ultimo riferimento a
San Tommaso
l'ha fatto la scorsa settimana in occasione di una visita a Bassano
del Grappa, e parlando a proposito di bene comune e qualità della
vita: «Chi è scelto per una funzione pubblica,
deve esserlo in base alle capacità e alle doti morali,
secundum virtutem; fa parte di una
aristocrazia, non nell'eccezione comune di detentrice della
ricchezza, ma secondo l'etimo, i più buoni».
«La ricchezza delle nazioni ― ha poi proseguito Fazio ― non si misura
solo in termini di fredde statistiche macroeconomiche, ma
soprattutto in base ad una migliore qualità della vita e soprattutto
ci vuole una classe dirigente che abbia capacità e doti morali.» Il
PIL è sì importante perché concorre a definire il benessere
generale, ma non è certo l'unico parametro da tenere sott'occhio. Ve
ne sono altri che assumono oggi un rilievo crescente come la
sicurezza, la salute e la cultura. «Etica, giustizia, visione
unitaria dell'uomo sono elementi di una antropologia che vanno
riaffermati nel nome di un nuovo umanesimo, [...]
e non è accettabile un riferimento di ogni e qualsiasi aspetto della
vita sociale (solo) all'economia e al mercato».
Queste parole mi hanno fatto ricordare un
altro suo intervento tenuto in
occasione del Simposio nazionale sul pensiero e l'opera del
Cardinale Pietro Pavan, e
pubblicato con
Umanopiù, la raccolta di studi curata da Leonardo Sileo in onore
di Gerardo Cardaropoli. Un passo della sua nota introduttiva,
aggiunta poi con la pubblicazione, così recita: «L'uomo è al centro di
tutto: l'economia è, deve essere, al suo servizio; ha le sue regole:
di esse, però, sono parte l'etica e la giustizia. Come per la terra
("soggiocatela", dice la Genesi), così le relazioni economiche
debbono sempre essere concepite come dirette, in ultima istanza, a
valorizzare l'uomo, a tutelare la dignità della persona».
Buona lettura!
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Il primato del lavoro in economia
L'homo oeconomicus è solo una parte dell'uomo, è una sorta di
ente di ragione, sviluppato dall'analisi economica per comprenderne
il comportamento nel consumo, nel risparmio, nella produzione.
L'uomo economico è una categoria che non contrasta con il
perseguimento delle finalità etiche di correttezza, senza la quale
verrebbe meno la capacità del mercato di operare a vantaggio del
singolo e, allo stesso tempo, della collettività.
Lo svolgimento dell' attività economica esige, infatti, 1'osservanza
di regole di trasparenza nei comportamenti, nelle informazioni,
nello scambio, nei rapporti di lavoro, nelle relazioni finanziarie;
si tratta, in sostanza, di principi etici. Questa condotta è
necessaria perché dalla massimizzazione della utilità del singolo
derivi anche un vantaggio per la generalità dei soggetti che
partecipano all'attività economica.
Per impiegare un concetto alto, deve essere presente nelle relazioni
economiche una giustizia commutativa, mancando la quale si può
agevolmente dimostrare che l'opera delle forze di mercato non
produce benessere, anzi può ingenerare regresso e involuzione. Si
pensi all'abuso di informazioni riservate e alla concorrenza sleale,
ai monopoli, alla corruzione, all'usura, allo sfruttamento del
lavoro. Negli anni recenti la necessità di un'etica nei rapporti
economici è stata riscoperta dagli economisti prima che dai
moralisti; senza quella correttezza l'economia alla lunga
imploderebbe.
Il mercato, dunque, vive di regole; 1'osservanza di queste è
fondamentale; esige fermezza, tempestività, oggettività da parte di
chi, in funzione degli interessi dei singoli e collettivi, è
chiamato a farle applicare; costituisce per chi è preposto a questa
funzione un dovere; esso è, di fatto, 1'antitesi dell'interventismo,
rivolto ai fini e non alle regole.
Un altro aspetto, ricorrente nelle riflessioni di Pavan,
si riconnette all'importanza del lavoro come fattore originario e
fondamentale della produzione. É un
concetto che risale agli economisti classici, Smith, e Ricardo;
passa attraverso Marx, è ripreso in quell'opera di eccezionale
concisione e lucidità che è Produzione di merci a mezzo di merci
di Sraffa; è presente altresì negli economisti keynesiani e in
quelli neoclassici; si ritrova in Leontief e Samuelson.
Oggi è più che mai riconosciuto, proprio come sostenevano i
classici, che il principale fattore di produzione è costituito dal
capitale umano. Di qui la crucialità delle politiche della scuola,
dell'educazione, della formazione. La competizione del nuovo secolo,
che sarà caratterizzato dall'informatizzazione di massa, sarà
principalmente nelle abilità, nei saperi, nella progettualità, ma
anche nelle grandi visioni che solo la cultura umanistica può dare.
Adam Smith insegnava che la fondamentale ricchezza di una nazione è
costituita dalle capacità e dalle abilità degli uomini nel produrre;
con riferimento ovviamente a qualsiasi genere di lavoro, non
soltanto al lavoro manuale. Questa configurazione dell'uomo dal
punto di vista degli economisti può ben accordarsi con il
riconoscimento ontologico della sua dignità in quanto persona,
dotata di capacità fisiche, intellettuali, spirituali.
È allora naturale che nei rapporti di produzione, chi lavora, chi
presta la propria opera alle dipendenze di altri possa e debba
essere più di un mero esecutore; di fatto partecipa alla
progettazione del proprio lavoro, ne condivide i frutti, può
arrivare a compartecipare all'attività dell'impresa.
Questa visione, come dirò tra poco, è coerente con un' idea più
generale della remunerazione del lavoro che si trova espressa con
chiarezza e fermezza nella Mater et Magistra.
La remunerazione del lavoro, come è scritto in quel fondamentale
documento deve essere almeno concettualmente composta di due parti e
rispondere a due finalità. Da un lato, deve garantire la dignità
delle condizioni di vita del lavoratore e della sua famiglia:
Toniolo diceva già nel secolo scorso che il lavoratore ricerca nel
salario prima di tutto la dignità; dall'altro deve remunerare
l'impegno e la capacità del prestatore d'opera. Questo secondo
aspetto è coerente con una visione, da un lato di giustizia nella
distribuzione del reddito, dall'altro, di efficienza nell'economia.
Va ricordato che una società giusta è quella che offre a tutti i
suoi membri condizioni di vita dignitose, ma nel contempo, remunera
la capacità e l'impegno di ciascuno. Una società «egualitaria»,
nella quale tutti hanno lo stesso reddito, sarebbe alla fine
ingiusta, ma sarebbe anche inefficiente: ingiusta, in quanto non si
remunera adeguatamente chi più si impegna; inefficiente, perché non
c'è correlazione tra qualità e quantità del lavoro e la sua
remunerazione. Cosicché si rischia di premiare le incapacità e la
pigrizia e di non fare emergere chi offre di più alla società con il
suo lavoro.
In una società industriale evoluta la quantità di reddito prodotto è
idonea a remunerare adeguatamente il lavoro e a sostenere un
sufficiente livello di consumi; nel contempo, consente la formazione
di risparmio da destinare all'investimento e quindi allo sviluppo.
L'analisi economica, sia essa neoclassica sia essa di tipo marxiano
come quella di Sraffa, è sostanzialmente coerente con questa
visione. All'interno della quantità di reddito destinata al lavoro,
una parte, oltre quella rivolta a garantire condizioni di vita
dignitose, deve essere distribuita con criteri di proporzionalità ai
risultati; cioè deve essere erogata secondo criteri di flessibilità,
la correlazione della massa salariale alla produttività garantisce
stabilità al sistema e, nel contempo, genera le condizioni per una
compartecipazione del lavoratore alle sorti dell'impresa, che può
essere spinta fino alla partecipazione al capitale dell'impresa
stessa.
Pavan giungeva a configurare il superamento dello status di
salariato nello sviluppo del processo di collaborazione, nella
solidarietà di fondo tra le parti sociali.
È una linea che dovrebbe concorrere a ispirare una rinnovata
politica dei redditi. Essa è necessaria anzitutto per affrontare i
problemi dell' occupazione e della crescita, nel nuovo contesto
della globalizzazione.
Beni, solidarietà e sussidiarietà
Ma vorrei ora rivolgermi a un altro aspetto ben presente nella
dottrina sociale e nelle riflessioni di Pavan: la sussidiarietà.
È un concetto che si trova già nella scolastica medievale e che
attiene al rapporto tra sfera pubblica e attività privata.
I poteri pubblici, lo Stato non devono esercitare attività che
possono essere di fatto meglio svolte dai privati, cioè l'attività
di impresa e di produzione in una moderna e ben funzionante
economia. Lo Stato e i poteri pubblici devono darsi carico di
offrire al sistema economico i cosiddetti beni pubblici, quelli cioè
che il mercato non è in grado di produrre sulla base delle sue
proprie forze e delle sue leggi.
Il carattere pubblico di un bene attiene alla sua natura e alla sua
destinazione; non implica che sia necessariamente lo Stato a
fornirlo.
La quantità di beni pubblici tende a crescere con la complessità
dell'economia; tuttavia, troppo spesso si vorrebbero pubblici beni
che meglio possono essere prodotti dall'iniziativa privata. Secondo
la Mater et Magistra, lo Stato e altri enti di diritto
pubblico non devono estendere la loro proprietà se non quando lo
esigono motivi di evidente e vera necessità.
Un particolare settore è quello della previdenza e, più in generale,
dello Stato sociale. La previdenza pubblica risponde al principio di
solidarietà fra generazioni; più fondamentalmente, a un criterio di
giustizia distributiva tra le generazioni in attività e quelle in
quiescenza.
Coloro che ora lavorano e producono lo fanno anche sulla base di un
capitale di conoscenze e di beni materiali accumulati da coloro che
hanno lavorato in passato.
Ho ricordato come la conoscenza e le capacità tecniche siano un
fattore di produzione di primaria importanza.
Ogni generazione eredita in questo campo ciò che è stato
predisposto, creato da una generazione che, appunto, lo trasmette
alla successiva. È giusto che coloro che hanno lavorato in passato
continuino a godere di una parte dei frutti delle conoscenze da loro
accumulate. Ma la previdenza pubblica non può estendersi per vincoli
di bilancio oltre certi limiti; aldilà di questi limiti può e deve
subentrare l'iniziativa privata.
Qui ben può trovare applicazione la categoria della sussidiarietà.
Accanto a una previdenza pubblica, che garantisce a tutti i
lavoratori in quiescenza un certo ammontare di reddito per
condizioni di vita dignitose e correlato con la quantità di reddito
prodotto e accantonato, può esistere una previdenza integrativa
complementare, che ogni individuo può costituire per sé e per la
propria famiglia attraverso il ricorso a forme assicurative.
É necessario a tal fine destinare una
parte del reddito guadagnato durante l'attività lavorativa a future
esigenze.
L'intervento volto a garantire condizioni di vita dignitose a tutti
coloro che non possono partecipare all'attività produttiva per
malattia, per privazioni, per disgrazie, per altre difficoltà ha per
sua natura un carattere solidaristico e pubblico. Accanto alle
antiche e sempre presenti esigenze di una società complessa, in
continuo movimento, si presentano ora nuove povertà: sovvenire a
esse è funzione pubblica. Ma perché non coinvolgere in questa
attività, in modo più sistematico e razionale di quanto oggi non
avvenga, il cosiddetto terzo settore, il comparto non profit,
il volontariato? A ben vedere è stato così nella storia. In genere,
è stata soprattutto la Chiesa che, nei secoli, ha fondato gli
ospedali, gli ospizi per i poveri, le mense per i bisognosi e
continua a farlo.
È un'antica aspirazione che accomuna ideali diversi, dal riformismo
operaio al solidarismo cattolico, quella di introdurre nel lavoro e
nella produzione forme di autogoverno.
A esigenze di utilità sociale e collettiva spesso lo Stato non è in
grado di far fronte, per le difficoltà che incontra nel riconoscerle
tempestivamente e affrontarle in maniera e misura appropriate.
Il terzo settore, il volontariato, coloro che operano nel sociale
conoscono meglio i nuovi bisogni e a essi sono in grado di
rispondere con tempestività e con il minimo indispensabile di mezzi:
usando un termine economico, in maniera efficiente.
In Italia lo sviluppo del terzo settore è rilevante, ma, se si
confronta la situazione con quella dei paesi più avanzati, si
riscontra che esso è in questi paesi ancora più sviluppato e, in
alcuni casi, meglio organizzato. Lo Stato non può intervenire per
far fronte a tutti i nuovi bisogni e a tutte le nuove forme di
povertà; deve rispettare le compatibilità di bilancio.
Abbiamo avuto modo di ricordare che la costruzione del sistema di
previdenza pubblica è una conquista di civiltà. Le modifiche che in
esso oggi si impongono e che vanno realizzate in un'ottica di medio
termine sono necessarie per preservarne la sostanza, assicurarne la
durevolezza, per consentire alle future generazioni di beneficiare
di questa acquisizione storica. Nel riesame dello Stato sociale e,
in particolare, della previdenza pubblica, un ruolo non secondario
può spettare alla sollecitazione e alla incentivazione di attività
non profit. Una minima parte delle risorse risparmiate dallo
Stato può essere destinata a fornire le necessarie strutture di base
perché il terzo settore e il volontariato possano svolgere in
maniera sistematica ed efficiente la propria opera. Essa deve
rimanere un'opera volontaria. Lo Stato, i poteri pubblici non devono
intervenire sui contenuti, sull'azione del volontariato; devono,
invece, assicurare solo alcune condizioni normative e fiscali,
nonché fornire le infrastrutture di base, perché il compito di
questi nuovi soggetti possa svilupparsi ordinatamente, e apprestare
alcune garanzie elementari per coloro che tale attività svolgono.
Sono, questi, stimoli alla riflessione nella linea di un pensiero
sociale forte, attualissimo.
La Sapienza dice che l'abbondanza dei saggi è la salvezza del mondo:
Pietro Pavan è uno di essi.
Antonio Fazio |